Piperno, porfido, sampietrini e mosaici 3.0

di Riccardo Brescia

 

Ci sono mestieri che non hanno epoca perché la loro età è stata cristallizzata dai tempi che cambiano.

Mio padre ci accompagnava a scuola tenendoci per mano, a piedi. La strada che ci conduceva alle elementari è una strada antica, voluta da Gioachino Murat in omaggio al cognato Napoleone Bonaparte da cui il nome attribuito all’epoca della realizzazione. Una strada antica di pietre antiche, come quella che percorrevo per raggiungere anche le scuole medie, poco distante l’edifico delle elementari.

Pietre antiche. Basoli di prezioso piperno e blocchetti di altrettanto prezioso porfido: i sampietrini.

I pesantissimi basoli di piperno, rettangolari, posizionati a fatica da almeno due addetti forzuti e pazienti con l’ausilio di pali di ferro con i quali far leva, venivano – dopo la posa – scheggiati con attenzione, uno ad uno, a mano, a scalpello. Un operaio, seduto su uno sgabello basso, a un solo piede centrale, scheggiava con mazzola e scalpello la superficie superiore del basolo per renderlo aderente e non pericolosamente scivoloso sia per i pedoni che per il traffico automobilistico. Senza protezione di supporti antinfortunistica (copricapo gialli, guanti, occhiali di sicurezza, scarpe). Nulla.

Ma funzionava. Solo i poveri cavalli adoperati per trainare carri funebri o per – per fortuna – fin d’allora rarissime carrozzelle, capitava vederli scivolare nel percorrere la strada in salita, per i ferri posti a tutela dei loro zoccoli.

Basoli solidi, inamovibili, ma fino ad un certo punto. Nei vicoli non è improbabile inciampare in basoli obliqui, inclinati in maniera pericolosa, spinti verso il basso dal peso del traffico stradale, complice il sottosuolo svuotato dal cattivo deflusso delle acque piovane oppure semplicemente vuoto per massicciate di base non eseguite a regola d’arte.

E allora le strade diventano irregolari nella loro sagoma, deformate, abbandonate al loro destino.

Questa sorte è condivisa dalle strade lastricate dai bellissimi blocchetti di porfido, i famosi sampietrini, che in altre città meritano il lustro delle aree più blasonate e famose. L’Avenue des Champs-Élysées, a Parigi: lastricata a sampietrini, maestosa, anche per me che l’ho vista solo in televisione nella tappa conclusiva del Tour de France. E dire che l’ingresso ai Campi Elisi è posto – da circa tremila anni – dalle parti nostre: ma le strade che vi conducono non sono tenute così bene.

Il bambino che risiede in me resta ancora sedotto da uno dei mestieri probabilmente più duri e pesanti mai visti. Le strade lastricate di sampietrini, costituiti come il porfido da pietra di preziosa, irripetibile origine vulcanica, venivano eseguite secondo un procedimento dal concetto semplice ma dall’esecuzione faticosa e ripetitiva. Terribile.

Innanzitutto – come in tutte le strade – veniva apprestato il fondo di base, punto di partenza determinante per la buona riuscita dell’opera. Successivamente, operai accovacciati, inginocchiati o seduti sui su descritti sgabelli bassi, creavano alloggio ai blocchetti adoperando martelli da muratore di tipo berlinese (da un lato martello tradizionale e dall’altro a becco piatto adatto a scavare) con cui veniva predisposto nella sabbia di base l’alloggio per il sampietrino e successivamente martellato per incastrarlo a dovere. Non era che l’inizio. Venivano posti grossi bidoni su pietre e vari pezzi di legno a bruciare per fondere, tenere liquida e alla giusta temperatura la pece con la quale saldare fra loro i sampietrini. L’operazione era la seguente: riempire di pece dei crogiuoli artigianali costituiti da latte di conserve ammaccate per creare un’imboccatura tipo brocca; con una precisione da orefici, lasciar colare la pece rovente e liquida fino al riempimento di ogni spazio tra i blocchetti di porfido allineati secondo geometrie precise. Operazione ripetuta decine, centinaia di volte, sempre uguale, sempre precisa, sempre inalando pericolosi residui fumosi della pece oggetto dal lavoro, anche in piena estate, sotto calure proibitive per chiunque; senza lamenti, con il solo obiettivo di arrivare a fine turno riguardando – per quanto fosse possibile fare – schiena, occhi, polmoni, braccia, cuore.

Non c’era scelta. Il lavoro andava eseguito ed eseguito a regola d’arte. L’alternativa era non farlo.

Ora sono cambiati i tempi, è cambiato il clima.

Immagino con difficoltà – con le temperature ormai fuori controllo – un lavoro del genere eseguito in epoca contemporanea. Sono migliorate le condizioni di lavoro (non per tutte le categorie di occupazione, purtroppo), sono aumentate le garanzie sindacali per lavori usuranti, sono avanzate le tecnologie a disposizione per eseguire le stesse lavorazioni pesanti e rischiose, come quelle raccontate.

Le strade in città, però, restano in condizioni discutibili se non precarie anche nei paraggi di zone ad alta densità di popolazione o di elevato interesse storico-turistico-culturale. Sono sempre più numerosi i basoli in piperno in procinto di sprofondare, e lo sono da mesi, anni. Sempre loro, sempre gli stessi. Soltanto il calcolo delle probabilità determinerà quale sarà la ruota o l’automezzo responsabile del definitivo sprofondamento.

Ai sampietrini non compete sorte migliore. Intere strade con sagome deformate presentano dossi o cunette che quasi si rincorrono, dune in movimento, come se appartenessero non ad una metropoli che ha ospitato la Capitale del Regno delle Due Sicilie ma a un deserto, a un territorio di guerra dopo un bombardamento. I blocchetti, dove non sono definitivamente saltati e accantonati casualmente a ridosso del marciapiede (creando pericolose voragini sia per veicoli sia per pedoni), vedono il loro alloggio allargato e di conseguenza risultano slegati dagli altri fratelli cui fino a poco fa erano reciprocamente aggrappati.

A definire lo scarso interesse verso materiali nobili che meriterebbero solo attenzione e maggior rispetto, salta agli occhi la discutibile soluzione spesso adottata al dissesto evidenziato. Le sagome deformate e la rincorsa delle dune dei preziosi blocchetti squadrati, vengono sistemate con stese di asfalto, nemmeno completate a dovere con adeguata segnaletica orizzontale, senza nemmeno prelevare il porfido saltato e destinarlo a miglior utilizzo.

Non serve essere ingegneri o studiosi dei materiali per comprendere che si tratta di mettere immondizia sull’oro, rendere in apparenza accettabile quello che accettabile non è.

Piperno, porfido, rispondono a caratteristiche termiche particolari, contribuendo a contenere l’aumento della temperatura per strada, strade sempre più prive di alberi che contribuirebbero a sopportare la calura inconsueta, sempre in aumento, cui non siamo ancora abituati. Fa riflettere vedere nuove opere pubbliche utilizzare pietre non più nostrane ma forestiere, provenienti da altre cave nazionali se non estere. Distanti, diverse, nuove.

Siamo proprio sicuri che possiedono caratteristiche meccaniche e fisiche migliori delle nostre?

Non merita, la nostra città, una rete viaria ordinaria, con una manutenzione ordinaria che ne eviti il deterioramento? Non meriterebbe la nostra città una rete viaria senza mosaici di asfalto a riempimento di sampietrini saltati, asfalto che – alle prime piogge – viene tirato via dagli improvvisi temporali di natura tropicale, ormai ordinari anche alla nostra latitudine?

I sampietrini abbandonati sul ciglio delle strade (spesso anche al centro della carreggiata) fanno pessima figura di sé, oggetto incolpevole di mancata ordinaria attenzione, soldati fedeli feriti, abbandonati alla loro squallida sorte.

I mosaici li posso ammirare a Ravenna.

In città voglio strade sicure.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

RSS
Follow by Email
Pinterest
LinkedIn
Share
Instagram
Telegram
WhatsApp
FbMessenger
Tiktok