Non chiamiamolo solo “ponte”

di Riccardo Brescia

Chiariamo subito che non si tratta di un ponte qualunque. È qualcosa di più. E’ molto di più.

E’ un Monumento Nazionale.

Ha cambiato le sorti di un quartiere della città; contribuisce a collegare in modo costante e fluente la zona collinare con il centro storico; attraversandolo, si ha modo di vedere il sole spuntare dietro il Vesuvio e tramontare calando dietro la collina del Vomero; l’ascensore comunale consente in pochi secondi di raggiungere il quartiere che il Ponte scavalca e sotto cui passa un’altrettanto importante arteria stradale.

Eppure tutti pensano che sia soltanto un ponte.

Poggia su ben sei campate di cui solo due visibili; di queste una è impegnata nello scavalco di via Arena Sanità e, delle altre quattro, due fanno da alcova ad altrettante abitazioni e altre due si allungano verso i chiostri della chiesa di S. Maria alla Sanità di cui, il più grande – rettangolare – completamente distrutto per far spazio agli elementi portanti della struttura e il più piccolo – di forma ovale e ancora visibile – devastato nella sua bellezza dal gigantesco pilone che ne ha alterato l’inatteso e ammirabile  disegno.

Piloni possenti, ingombranti, sicuri, come la pietra con la quale sono stati costruiti.

Il ponte fu costruito – racconta la storia – per completare il collegamento tra la zona bassa della città e quella collinare; in buona sostanza fu realizzato per consentire ai regnanti che lo commissionarono, di raggiungere agevolmente da Palazzo Reale la residenza estiva/riserva di caccia reale di Carlo III: la Reggia di Capodimonte.

Il vantaggio immediato fu il completamento della strada in costruzione dalla contrada di Santa Teresa degli Scalzi a Capodimonte, lavori portati a termine da Gioachino Murat e dedicata al cognato Napoleone Bonaparte, cui la strada fu all’epoca intitolata con il nome di Corso Napoleone.

Il ponte successivamente determinò l’isolamento del Rione Sanità (edificato nel XVII secolo) e per questo ignorato dal resto della città, consentendo il proliferare di attività illecite, forti del ridotto controllo delle Forze dell’Ordine del tempo.

La sua importanza strategica non sfuggi all’Esercito Tedesco che – nei giorni in cui la città insorgeva (prima in Europa a farlo senza l’aiuto di nessun esercito alleato), nel corso della loro ritirata in seguito alla sommossa popolare, tentò di far saltare in aria piloni e strada sovrastante, per isolare l’area nord e l’area portuale della città. Questo estremo tentativo di lasciare dietro di sé macerie e distruzione, e l’insurrezione delle Quattro Giornate di Napoli nel settembre 1943, furono il palcoscenico per alcune fra le più belle pagine di storia partigiana, quelle di cui ancora si parla e si parlerà in futuro.

Fu la 22 enne – all’epoca dei fatti – Maddalena Cerasuolo a rendersi artefice e protagonista dello scontro armato, guidato dal padre, che portò allo sminamento del ponte, salvando un’importante arteria di comunicazione e i rifornimenti idrici dei quartieri a valle.

Tale azione valse alla giovane la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.

I pochi secondi delle sue ultime interviste (in calce i link dei video) lasciano trasparire la forza e la semplicità di questa grande donna, il suo fervore, la sua passionalità e la sua fierezza.

Ecco perché non si può attraversare distrattamente il Ponte.

Imponente, in primo piano, attira l’attenzione la cupola gialloverde maiolicata della basilica di Santa Maria delle Grazie alla Sanità (detta anche Chiesa dalle Dodici Cupole o delle Catacombe Paleocristiane di San Gaudioso oppure di San Vincenzo Ferreri – c’è solo l’imbarazzo della scelta sul nome con cui identificarla); sulla sua sommità non è improbabile vedere con un po’ d’attenzione un gabbiano, immobile, pensieroso, ingombrante, silenzioso osservatore della vista impressionante che da lassù  evidentemente si gode. Quasi da quinta lontana fa la sagoma scura dell’ala terminale di un antico monastero che attualmente ospita corridoi e aule della scuola elementare 19’ Circolo Vincenzo Russo. Tra di loro, prima che l’occhio cada nella piazza antistante la Basilica, tra le tegole dei tetti (alcuni anche abusivi) svetta dominante la sagoma del Vesuvio, di color azzurro scuro, intenso, sfumatura di transito tra cielo e terra, ingannevole quiescente padrone di casa che non manca di far capire a chi lo abita da millenni chi sia il più forte. Dall’altro lato, si distende la piazza che ospita il vecchio Ospedale San Camillo, struttura architettonica bellissima, mortificata da noncurante trascuratezza, caratterizzata dalla colonna campanaria rosso sbiadito con tracce di un enorme orologio che chissà da quanti anni non fa sentire i suoi rintocchi; la struttura è corredata da un’importante area verde (guarda un po’, priva di manutenzione) ben visibile dall’alto del ponte e che adesso accoglie la Cooperativa La Tenda, lodevole iniziativa di aiuto medico-sanitario-logistico per bisognosi e indigenti, locali e stranieri: un bel modello di accoglienza cui la nostra città è devota interprete.

Attraversare il Ponte significa sentire le voci dei partigiani che sono morti per garantirci libertà e identità; significa leggere il nome Maddalena Cerasuolo prima e dopo averlo impegnato, e nel mezzo, incisa in un’insegna posta sul casotto dell’ascensore; significa pensare che avremmo potuto conoscerla Lenuccia, come nel quartiere la chiamavano, avendo terminato la sua avventura terrena nel 1999. Significa ricordare le storie raccontate – e chissà quanto vere fino in fondo – di persone che dal ponte si sono lasciate andare nel vuoto; come quella di un uomo che – salito sul tetto del casotto si è lasciato cadere, ha rimbalzato su grossi cavi della corrente elettrica, è ricaduto su una piccola utilitaria sfondandone il parabrezza, e rimanendo miracolosamente illeso, comportando però traumi e danni al malcapitato autista della suddetta utilitaria rendendone necessario il ricovero in ospedale. Dopo tale episodio, oltre alle file fuori gli sportelli dei Bancolotto – all’epoca molto numerosi – furono installate reti metalliche per ostacolare l’arrampicata fino ad allora agevolata dalle cancellate costituite da verdi tubolari metallici regolari e spaziosi.

E se per caso ci si distraesse, scavalcato il ponte verso il centro, ci si imbatte nell’emiciclo intitolato a Vincenzo Stimolo, partigiano: anche lui, anche lui distintosi nelle Quattro Giornate.

No, non si può attraversare il Ponte Maddalena Cerasuolo come se nulla fosse.

Non si possono adoperare le reti di recinzione delle cancellate per appendere striscioni ultras che, una volta divelti dal vento, lasciano le orribili fascette stringitubo eternamente aggrappate ai quadrati metallici lasciati liberi dalle recinzioni che tanto disturbano i panorami che da entrambi i lati sarebbe possibile ammirare.

A stento sono sopportabili enormi tricolore letteralmente cuciti addosso in occasione del recente trionfo calcistico e le decine di bandierine ultras poste sulla sommità acuminata di ciascun tubolare delle vecchie cancellate, mirabile esempio dell’Arte del Ferro Battuto a Napoli nell’800.

Non c’è una sola pietra che meriti la mortificazione di una bomboletta spray, cartoni di pizza o bottiglie vuote lasciate sui muretti come fossero banconi di bar.

Il Ponte è presente nella canzone napoletana, nominato nel brano “Non mi seccare” cantato dalla straordinaria interprete Maria Rosaria Liberti – Ria Rosa – prima cantante femminista, contesa dalle case discografiche del primo ‘900, e come la Cerasuolo convinta antifascista, passionale, ironica, provocatoria: un’altra figlia illustre della nostra città.

La festa per lo scudetto ha ridato centralità logistica e identitaria al quartiere e ha riunito tutti i significati che al Ponte Maddalena Cerasuolo è possibile attribuire, al punto da aver costituito – giustamente – il luogo deputato alla conclusione della festa di quartiere in occasione dell’attesa vittoria della squadra di calcio dalla maglia azzurra, con tanto di bandiere, fuochi d’artificio, tifosi euforici ammassati.

Attraversiamolo anche con la superficiale fretta che ci fa sempre da compagna fedele: non dimentichiamo però che non si tratta di una semplice strada cittadina protetta da reti e cancellate, ma un organo vitale, composto da tanti polmoni che respirano e tanti cuori che pulsano all’unisono.

Non è solo un Ponte. E’ di più, molto di più.

 

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Un pensiero su “Non chiamiamolo solo “ponte”

  • Settembre 4, 2023 in 5:24 pm
    Permalink

    Sempre acuti, colti e godibilissimi gli articoli di Riccardo Brescia. Complimenti

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