Mettetevi comodi

Nel mezzo del cammin di un lesto autunno, che di fare l’autunno non ne vuol sapere, c’è uno squarcio di bellezza e di luce calante in un cielo azzurro, azzurro come pochi. C’è un minestrone di velluti, ori, carnagioni chiare e abiti scintillanti; di archi, timpani, soprani, tenori; colori; buio; silenzio. Acuti. Pause. C’è un timido arcobaleno di tante nazionalità, disorientate dal ruvido contrapporsi di bianco e nero, poco abituate a quel tipo di bellezza. Fermento di trepidanti attese, scintillii di emozione riflessa nelle pupille, respiri accelerati. Occhi a mandorla, tanti; lingue incomprensibili. Tonalità pastello senza senso; curiosi berretti che sarebbero alla moda, in altre latitudini.

Passione, amore, inganni. Destini cercati.

C’è’ la Madama Butterfly al San Carlo.

Pomeridiana. Domenica, 24 settembre. Clima ideale.

Fuori, dinanzi all’ingresso nella rumorosa via, autobus di lusso, taxi e auto scure NCC, in fila ordinata, lasciano dinanzi alle cancellate dei giardini della Biblioteca Nazionale decine di turisti che si dirigono a gruppi sotto i portici del Massimo Napoletano per salire le ambite scale che li condurranno alla platea o ai palchi.

Il temporale senza regola del giorno prima ha ripulito l’aria, reso mite e gradevole la temperatura; ha incoraggiato lo sfoggio di abiti lunghi per le donne e di giacca e cravatta per gli uomini. Il variopinto ventaglio delle nazionalità presenti induce a osservare la gente: il suo abbigliamento a volte non proprio ortodosso per il luogo, il modo impacciato con il quale tutti si rigirano estasiati in piroette da capogiro con il naso all’insù.

La bellezza intorno è fuori ogni misura previdibile.

Nell’attesa il garbato brusio è distribuito in ogni palco e in ogni angolo della platea. La raffinata e

capiente bouvette a pianterreno ospita addetti al servizio educati e sorridenti che smistano velocemente i clienti verso il bar o i tavolini per rendere scorrevole il ricambio.

Non manca molto dal “chi è di scena”.

L’opera è di quelle più note, così come lo sono le note delle sue arie più famose.

Il regista, tra i più attesi. Cinematografico (e lo dimostrerà nelle sue scelte di scena); passionale; istintivo; visionario. Unico abitante di un universo parallelo: il suo. Non nuovo alle regie liriche. Il regista definito come “colui che racconta l’amore che salva e l’amore che uccide” e che per farlo adopera tutte le possibilità che gli offre una macchina da presa o le tavole di un palcoscenico, senza distinzione alcuna. L’uomo che prima sente e poi vede le cose; il regista della morbida voluttà e del sentimento. Chi meglio di lui potrebbe raccontare la storia della donna bambina giapponese innamorata e tradita? Di motivi per alimentare le aspettative ce ne sono tanti.

Per tutti, è la storia di un amore, un amore ingannato.

Una donna, devota alla sua famiglia e alle tradizioni del suo popolo, per poter tirare avanti e sostenere i genitori anziani si concede alla professione di gheisha. Si innamora perdutamente di un ufficiale americano che, convinto di vivere solo un’avventura amorosa decide di sposarla, contro il parere del console americano che – conoscendo le tradizioni locali – sa che non sarà una leggera avventura. L’ufficiale acquista la casa di Butterfly, secondo le tradizioni del paese di lei. Per sposare il graduato a stelle e strisce, la donna ne sposa innanzitutto la cultura e soprattutto la religione, sottraendo persino le sacre statuette dei suoi avi che mostra in scena, sotto gli occhi interrogativi e ironici del futuro sposo che ne mortifica il gesto, ignorandone il significato, troppo elevato per la mentalità occidentale. La donna viene rinnegata dallo zio Bonzo e dai propri concittadini.

Resta sola, isolata, con la sua devota ancella, Suzuki (forse innamorata della padrona).

Nell’unico intervallo tra il 1′ e il 2′ atto c’è il tempo di raggiungere i giardini sul retro, passando per il Grande Salone degli Specchi – il Foyer – con in fondo un esteso ed elegante bar. La luce del giorno appena accenna a dare il cambio a quella del crepuscolo e, in un momento di respiro tra le note appena ascoltate e quelle attese, è possibile vedere i musicisti in fondo alla scalinata a doppia rampa che dal Foyer conduce al Giardino dei Romantici chiacchierare e scherzare fra di loro, come se nulla fosse. E’ il loro mestiere. Sono abituati – loro – a suonare Puccini una sera e Wagner il pomeriggio successivo, per poi esercitarsi per un concorso la mattina prima delle prove per un concerto di musica da camera: e la sera, nuovamente, essere pronti per una nuova recita di un’opera di Puccini.

Come prendere un caffè: ora in un bar, ora in quello a fianco.

2′ atto.

Lo sposo torna in patria a bordo della cannoniera Lincoln di cui detiene il comando, promettendo alla giovane donna (la protagonista, nel dramma, ha solo quindici anni) di tornare dopo che il pettirosso avrà fatto il nido. Nessuno sostiene e condivide la convinzione di Madama Butterfly che l’uomo ritorni, La donna provvede – sola – al sostentamento dei propri genitori, mentre la povertà si impadronisce del suo ormai ridotto e isolato nucleo familiare. L’unica possibilità di tirare avanti sembra essere tornare a esercitare l’antica professione di gheisha. Madama Butterfly, pervasa da un amore devoto, come solo l’amore devoto di una donna orientale sa essere, crede fino – al paradosso- che all’improvviso scorgeranno da lontano “levarsi un fil di fumo”, il fumo della ciminiera della nave che riporta a lei il suo sposo.

Trascorrono tre anni e, mentre nessuno credeva che la nave sarebbe tornata, in lontananza appare la sagoma bianca di una cannoniera che batte bandiera americana: risuona il cannone del porto a segnalare l’accoglienza amica nei confronti della nave. Lo sposo sta tornando.

Madama Butterfly – insieme alla fedele ancella e al bimbo concepito con lo sposo e cresciuto in gran segreto in assenza del padre – attende sveglia per l’intera notte mentre suona dolcissimo e tenebroso il celeberrimo Coro a bocca chiusa, accompagnato dal sublime pizzicato sottile dell’orchestra.

Qui entra il cinema. Uno schermo trasparente cala sulla scena e su di esso viene proiettato il viso in primo piano di Butterfly; il piano sequenza rivela la donna trovarsi in riva al mare, lentamente voltarsi verso l’orizzonte, allontanarsi ed entrare in acqua vestita del rosso abito tradizionale, con un incedere regale e solenne verso acqua sempre più alta, quasi presaga della sorte che di li a poco sarà lei stessa a scegliere.

Lo sposo è tornato, ma non è solo. E’ accompagnato dalla moglie regolarmente sposata in America. Sono tornati, e il console americano in terra nipponica li condurra a casa di Butterfly per prendere il bimbo e assicurargli vita migliore, al di fuori dei confini del paese del sol levante: lontano dalla madre.

Il dramma si conclude con Madama Butterfly che, affranta dal tradimento subito e dilaniata dalle oggettivamente scarse e tristi possibilità di crescere il bambino, accetta il destino che si sta per compiere e, in un ultimo gesto d’amore, si toglie la vita.

Nella rilettura del regista turco con cittadinanza italiana (abita a Roma, cittadinanza onoraria di Napoli nel 2019, collaboratore all’inizio della sua carriera di Massimo Troisi e da sempre ammiratore e conoscitore profondo della nostra città), Madama Butterfly non è vittima come sarebbe facile interpretarla ma lucida artefice del proprio destino. Pianifica, consapevole e persa nell’allucinazione del suo sentimento, la sua vita e la sua morte. La vera vittima, secondo Ozpetek, è l’alto ufficiale americano, il classico marinaio con una donna in ogni porto, vittima di sé : un burattino, come lui stesso lo definisce. Lei, anche nel suo gesto estremo, richiama la storia e la tradizione del suo paese stringendo con una corda le gambe per dare dignità alla caduta del corpo esanime dopo che il pugnale ha eseguito il suo compito. Alla maniera del Samurai.

Tre sono gli abiti che indossa in scena: rosso, all’inizio; di tulle rosso, nella scena della celebrazione del matrimonio-farsa; bianco , in tutte le cene che conducono al tragico epilogo (non a caso il bianco, colore del lutto in Giappone).

Magistrale l’utilizzo delle luci e la scenografia, quasi felliniana (se ci è consentito l’ardito accostamento); ogni elemento sembra dare forza all’altro contribuendo – in maniera esaltante – a descrivere la storia, in anticipo di qualche secondo.

Sembrano superflui persino i sottotitoli.

Ci sarà un motivo se ogni recita al San Carlo ha registrato il sold out.

E di motivi ne abbiamo visti davvero tanti, almeno quanti sono i motivi che ci porteranno sempre al San Carlo a riascoltare la Madama Butterfly.

…”vogliatemi bene,
un bene piccolino,

un bene da bambino,
come a me si conviene.
Noi siamo gente avezza
alle piccole cose,
umili e silenziose,
ad una tenerezza
sfiorante e pur profonda
come il ciel, e come l’onda
del mare”.

In sala presto torneremo.

“…t’aspetterò…:
…un bel di vedremo…”

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