Comandante


Partecipare alla prima di una proiezione ti fa sentire bello e importante.
Arriva l’invito inatteso;  il film è di quelli di cui si parla mesi prima, in promozioni televisive, sui social, nei manifesti in città.
La piazzetta antistante l’ingresso dello storico cinema nel quale avverrà la proiezione brulica di persone che si accalcano per vedere regista e protagonisti firmare autografi e rendersi disponibili per frettolose foto scattate da altrettanti improvvisati fotografi armati di cellulari.

E’ mite, la sera di fine ottobre; minaccia pioggia ma lo scirocco rende piacevole restare all’aperto finché è possibile. Informale e cordiale il clima che intercorre tra attori, regista, appassionati, fan e gente comune che – incuriosita – rallenta il proprio passeggio per sbirciare tra la folla, allungando il collo e elevando più possibile il corpo sulla punta dei piedi.
Inevitabile, una volta entrati e preso posto, scrutare la platea fila dopo fila alla ricerca di visi conosciuti da salutare o da incontrare dopo chissà quanto tempo, amici da riabbracciare, volti noti, celebrità … o qualcuno che le somigli tanto.
Lo staff si presenta. Il regista descrive l’idea, la sua genesi, il suo sviluppo. Gli attori offrono il loro tocco informale, interagiscono tra di loro, danno atto della loro presenza in platea e poi sullo schermo.
Sono pochi minuti di parole rese calde dal microfono che le amplifica; parole impacciate (il linguaggio preferito dai protagonisti è certamente quello visivo), idee ben salde nella mente ma incerte da rappresentare dinanzi a una platea colma in ogni ordine di posto, in uno dei cinema che rappresenta la storia della nostra città.
Buio in sala e la proiezione ha inizio.
Silenzio.
Fin dalle prime inquadrature appare chiaro, anche a un incompetente della materia come lo scrivente, che il film rappresenta un manuale su come si gira un film.
Primi piani, luci appositamente scelte per il tipo di storia da raccontare. Dialoghi attenti dove ogni parola è misurata e porta con sé il proprio significato allargato, insieme al dramma che intende sintetizzare.
Pause; fermo immagine; ambienti d’altra epoca; abbigliamento; effetti di scena in grado di sostituire descrizioni che potrebbero durare interi minuti.
Potere delle immagini; processo transazionale della loro percezione; potere evocativo di suoni ed effetti; transfert emotivi.
Il mare.
Tutto contribuisce fin dai primi minuti di proiezione a dare il giusto valore alla pellicola che, inesorabile, affonda nello stomaco – fotogramma dopo fotogramma – come una lama, resa tagliente dal vissuto individuale (trascorso o passato) di ciascun spettatore.
Il film racconta una storia vera, drammatica. Una storia di uomini al tempo della Seconda Guerra Mondiale.
Storia passata, tragicamente contemporanea.
Storia di uomini che si affrontano e uccidono in nome di qualcun altro: indistruttibile filo rosso che lega epoche e popoli e rappresenta il canovaccio – sempre uguale – sul quale si perpetua la rappresentazione della storia dell’umanità, della sua triste linea evolutiva e del suo lento e inesorabile declino.
Il cinema deve raccontare chi siamo, dove andiamo. Questo film è la vita che è stata dei nostri genitori e quella che è dei nostri figli le cui domande sono scogli difficili da superare: perché risposte a storie di guerra sono sempre le stesse, come sono sempre le stesse le loro domande.
Un film da vedere.
Poi, finita la proiezione, tornare in silenzio, almeno per un po’.
Un film degno di questo nome che sia come l’acqua di mare, elemento di cui questo film è pieno: ci avvolga, ci bagni, ci inondi; ci lasci l’ondeggio irregolare delle sue onde ma ci lasci soprattutto un segno, anche dopo la parola FINE, proprio come l’acqua del mare – dopo essere evaporata – lascia l’inconfondibile traccia del suo sale.

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