Jago, che ti passa per la testa?

Jago, che ti passa per la testa?

Entrare nel Rione Sanità equivale ad entrare in un mondo a parte.

Il rione è esteso, brulicante di vita. Un intrigato labirinto di vicoli che dal piano delle mura angioine di via Foria si distende nell’antichissima valle degli Eustelidi e tende a inerpicarsi verso la collina di Capodimonte che ne rappresenta il confine settentrionale.

E’ uno scrigno di tesori esposti, luoghi di culto, eleganti palazzi testimoni silenziosi della nobiltà che per secoli ne ha abitato le strade; di abitazioni dalle architetture ardite e raffinate; di appartamenti molto ampi con immense stanze e cortili; e poi sotterranei, botteghe storiche di commerci tradizionali per la zona (olio, baccalà, artigiani del marmo, del rame, tappezzieri).

La rinascita del quartiere, e del Borgo dei Vergini in particolare, ha spinto ben oltre i b&b, le vinerie, i bar di aperitivi e le pizzetterie l’attenzione di cittadini e turisti. Va riconosciuto il movimento culturale che ha fatto da traino alla nascita di esercizi di accoglienza in zone non nuove a una vocazione commerciale soffocata da traffico, delinquenza, anarchia, mancata osservanza di regole che hanno appannato la fama di strade e vicoli che hanno fatto la storia della nostra città e hanno costituito il veicolo per divulgarne la cultura nel mondo.

In questo contesto multiforme, in una piazza il cui restyling di – ormai – un bel po’ di anni fa meriterebbe l’onore di una tutela e una decisa opera di rispetto urbanistico e cittadino, si stagliano – improvvisi – prodigi architettonici e artistici nascosti ai più e che solo la buona volontà e il lavoro di cooperative coordinate da parroci sceriffo (insieme a ragazzi letteralmente presi dalla strada) ne stanno permettendo la conoscenza e fruizione ai locali e stranieri, sedotti dai tanti tesori nemmeno tanto nascosti.

La piazza in questione è piazza dei Vergini, ampio crocevia di arterie che conducono nel ventre del rione, verso la collina di Capodimonte dopo aver percorso via Cristallini e salita Miradois, verso la collina del Moiariello attraversando Largo Miracoli e risalendo le Rampe Morisani, e verso via Foria, passando per via Crocelle a Porta San Gennaro.

Sono insospettabili le sorprese nelle quali ci si può imbattere lungo questi vicoli stretti e le sinuose curve a gomito delle stradine che si inerpicano verso la sommità della collina. Monasteri, Educandati, catacombe, acquedotti augustei, ipogei, chiese, basiliche, cappelle, collegi, cave, supportici. E’ il caso di dire “chi più ne ha più ne metta”.

In una interminabile gimkana tra bancarelle, indumenti appesi ad ombrelloni che ne coprono la mercanzia; dopo aver schivato scooter (anche in controsenso), doppiato cancelli chiusi da chissà quanti anni; dopo aver lasciato alle spalle profumi di pane, verdure freschissime, pasticcerie a bordo strada, pizzerie, pescherie inevitabili da notare e tarallifici rinomati da oltre mezzo secolo, emerge proprio dirigendosi verso via Foria, dopo una ordinata serie di negozi, il Museo di Jago, o meglio la chiesa barocca di S. Aspreno ai Crociferi che ne costituisce la dimora stabile.

Jago, al secolo Jacopo Cardillo – scultore ciociaro – dopo varie mostre di grande successo in giro per il mondo, ha scelto di insediare il suo studio in una chiesa dedicata al primo vescovo di Napoli e chiusa da oltre quarant’anni, dopo sfortunate vicende legate se non conseguenti al sisma del 1980. E’ l’artista stesso a motivare la sua scelta (maturata tra l’altro durante la pandemia) quando dichiara che “nel quartiere Sanità c’è il futuro, terreno fertile, creatività”. Ha dichiarato di aver scoperto “scultori dell’umanità, persone che plasmano materiale umano, in un luogo che ha le carte in regola per costituire uno dei centri culturali più importanti d’Italia, in quanto realtà che sta già vincendo tutto dal punto di vista della qualità e dell’accoglienza”. Parole pesanti, dette da chi non è nato tra i vicoli di un centro storico patrimonio dell’Unesco ma in una realta diversa dalla nostra, dalla quale tanti figli blasonati hanno scelto di andar via.

Il museo è visitabile grazie alla Cooperativa La Paranza (sempre lei, per fortuna) dove un gruppo di ragazzi talentuosi, volenterosi e innamorati conducono dinanzi alle opere dello scultore delineando poche caratteristiche tecniche. Pochi minuti per condurre mano nella mano di chi si approccia alle opere esposte; opere in pietra bianca, inanimate, immobili eppure tutt’altro che silenziose. Gli spazi ampi della chiesa (tutt’ora consacrata, si badi bene) risuonano ancora delle prediche veementi di Padre Vinci che nelle domeniche immediatamente successive al terremoto scuoteva al pentimento e alla devozione i fedeli che ne affollavano le panche. Adesso la sua voce acclamante non rimbalza più dall’altare all’assemblea. Ad urlare, sussurrare, bisbigliare e disperatamente a chiedere sono volti raffigurati, braccia potenti che sorreggono un corpo; è un volto disperato; sono le urla d’aiuto di chi lotta per liberarsi da una stretta violente non voluta. E’ lo sguardo fiero e sfidante di una donna nella cui mano l’artista ha scolpito una pietra.

Ciascun visitatore darà la propria voce al complesso marmoreo che avrà di fronte e ne apprezzerà i volumi, le espressioni, meravigliandosi per come sia possibile plasmare una pietra fino a concedere ai colpi di scalpello la possibilità di una sfumatura diversa a seconda del contesto e del volere del suo artefice. L’uomo scolpisce la pietra da millenni ma è come se ogni nuovo colpo di scalpello sia in grado di riassumere in sé l’intera storia ed evoluzione di chi ha saputo fare del proprio talento nel tirar fuori figure significative da un inanimato blocco di pietra, un’arte: un’arte destinata a scavalcare i secoli.

Una scultura va vista sotto varie prospettive, con diverse illuminazioni. Va apprezzato il suo volume, l’insieme delle proporzioni e la qualità della rifinitura. Nel museo di Jago tutto questo è possibile. La distanza tra le opere consente tempo; tempo a ciascun visitatore; tempo per pensare; tempo per entrare in quelle pietre (la prima in ordine di visita è persino possibile toccarla); tempo per immaginare gli attrezzi, lo sforzo fisico e mentale di chi ha creato quelle sculture; tempo per immaginare il movente e l’obiettivo.

Il 20 maggio 2023, in occasione dell’inaugurazione del museo, c’erano più di 5.000 persone in due file distinte e ordinate che si dipanavano da un lato verso i Vergini e dal’altro verso via Foria, sotto una pioggia battente. La risposta della città e di chi si trovava in citta quel giorno fu chiara, forte, determinata.

Lunga vita a Jago, a La Paranza, al museo che dello scultore porta il nome. Lunga vita al laboratorio nel quale l’artista ha in mente di scolpire la personale versione della “Pietà” in un blocco marmoreo di – ci raccontano le guide della cooperativa – oltre dieci metri di altezza. Lunga vita a chi visiterà il museo, dando ragione di vita e rimbalzo ai tanti progetti di recupero che intorno ad esso ruotano e all’interesse che la politica dimostrerà di rivolgere a tali iniziative.

Sarà un bel vedere. Sarà un bel vivere, per chi vedrà.

 

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