Ce la meritiamo tanta bellezza?
A cavallo del millennio, mentre si avvicinava il 31/12/1999, in tanti ponevano domande riguardo un paventato e famigerato Millenium Bug, sulle ali del quale qualcuno ipotizzò macabre profezie di una probabile e predetta fine del mondo. Un po’ per gioco un po’ per sdrammatizzare questa moderata alea di ansia, fu indetto un sondaggio: “Se il mondo finisse stanotte (31/12/1999 e ricominciasse domani, 1/1/2000, e doveste scegliere un’opera, canzone o prodotto musicale da salvare, senza distinzione di categoria, genere, epoca, latitudine, provenienza o natura, quale portereste con voi?”.
La commissione non era costituita solo da esperti e critici musicali ma era integrata da gente comune delle più disparate estrazioni, formazione, mestieri, sesso, cultura, provenienza.
L’opera che risultò scelta per ricominciare, fu il Don Giovanni di W.A. Mozart, quello di “Là ci darem la mano…”.
“Un motivo ci deve essere”, mi dissi.
Ieri, 22 febbraio 2024 ero a teatro, con il preciso intento di capire “perché”.
Sala piena in tutti gli ordini di posto (ed eravamo alla replica n. 5 ).
Mozart. Pubblico fremente e variegato. Regista Mario Martone. Debutto dell’opera al Teatro San Carlo.
Gli elementi c’erano tutti.
Prendo posto di parapetto nel mio palco n. 25, da dove contavo di avere la visuale libera sull’orchestra; ma già il palcoscenico – modificato per lo spettacolo – mi accorgo che riserva una sorpresa.
Peccato, mi son detto. Vedere la San Carlo all’opera è uno spettacolo nello spettacolo.
Le sorprese – però – non si fermano alla struttura del palcoscenico e dello scrigno che racchiudeva ulteriormente la fossa dei musicisti.
La regia prevede trovate sceniche inaspettate ed eleganti: indubbiamente di grande effetto.
La platea, adoperata a servizio della scena.
Le luci di sala indicano al pubblico dove prestare attenzione per seguire a dovere l’azione scenica.
Grandi voci, grandi virtuosismi.
Orchestra morbida, soave, efficace, nella potenza di una partitura raffinata e a tratti sottile e minuziosa. Strumenti inaspettati.
Anche un inesperto profano se ne accorge.
Soprani e tenori cantano anche in ginocchio e talvolta stesi. Prova anche fisica della loro capacità di gestione delle loro doti vocali. Viene dato ampio spazio alle doti recitative, sia dei cantanti sia delle numerose comparse che fanno in parte da cornice e in parte danno sontuoso sostegno alle vicende di uno degli amatori più famosi della storia e delle sue incorreggibili peripezie.
Nel palco n. 25 ho come compagni di poltrona una coppia ucraina e un giovane orientale, la cui fidanzata (orientale anche lei) occupava il palco a fianco. I due ragazzi, prima del buio in sala, sorridono e interagiscono nella loro lingua. Non nascondono la loro grande e frenetica emozione. Scattano foto, selfie, panoramiche.
Sono bellissimi.
A spettacolo in corso sento il giovane alle mie spalle intonare sottovoce – in coerenza con i protagonisti – alcune note della partitura. Sorride fino a ridere di gusto nei momenti buffi della storia (ad esempio quando Leporello e Don Giovanni si scambiano di abito). Conosce a fondo l’opera; comprende quanto basta – è evidente – la nostra lingua, fino a comprendere in maniera così precisa le fasi e l’ironia di alcune battute, date – in maniera magistrale – dai protagonisti. Un po’ come se noi andassimo in Terra d’Oriente, scegliessimo di assistere a uno spettacolo di Teatro No e fossimo in grado di comprenderne le parole, i sottintesi, al punto da seguire lo spettacolo in maniera tanto consapevole da ripetere sottovoce le battute e sapere quando sorridere o piangere.
Diversa cultura, diverso studio delle culture altrui, diverso approccio.
Gli chiedo di dove fosse. Mi risponde – vago – “Roma, siamo studenti”. Forse è infastidito dal mio slancio.
Non nascondo la mia emozione.
C’è un punto preciso – però – in cui le culture Orientale e Partenopea si avvicinano fino a mescolarsi. Accade quando il giovane appassionato di lirica, conoscitore della lingua italiana e studente a Roma, comincia a riprendere – nascosto dalla penombra del palco – intere fasi del melodramma, scatta foto, registra lunghi video, contravvenendo al divieto assoluto di utilizzo dei cellulari annunciato dalla speaker prima dell’inizio dello spettacolo.
Tutto il mondo può essere paese e tutto il mondo trova nella nostra città terreno fertile per radicare nella nostra morbida modalità di affrontare ogni cosa riguardi l’ordinario e lo straordinario: nel bene e nel male.
Lo spettacolo riscuote un gran successo.
I colpi di scena; i merletti ricamati dalla voce delle soprano che – in una tacita competizione – tirano fuori l’oro e l’argento dalle loro corde vocali; i toni fermi e potenti di baritoni e tenori; i controscena dei tanti ballerini e cantanti a sostegno dei protagonisti; la regia che propone azioni di scena in perfetto accordo con lo spirito dell’epoca che, a ben vedere, ha molto in comune con quello contemporaneo. Tripudio per i protagonisti (anche sovietici: si, sovietici, e cantano in italiano. La lirica è anche questo: studio degli spartiti e canto in lingue anche molto distanti dalla propria).
Non possiamo restare indifferenti a tanto splendore, a tanta bellezza.
Al calare della tela quasi provo rammarico perchè tutto sta volgendo al termine.
Mi accingo a raggiungere l’uscita soddisfatto, avendo ben chiaro – pur non essendo esperto di lirica – perchè il Don Giovanni è l’opera musicale scelta nel caso in cui il mondo finisse all’improvviso e tutto dovesse ricominciare da zero.
Commetto un grave errore.
Nel salutare il ragazzo orientale, gli stringo la mano, dimenticando che in Oriente il contatto fisico non è visto come gesto di amicizia. Ma lui non ci fa caso e ricambia il mio saluto.
C’è folla, tra guardaroba, foyeur e scalinata dell’uscita.
C’è tempo per pensare al mondo fuori che brucia, quel mondo nel quale fra qualche minuto sarei rientrato dopo due ore e trenta a galleggiare su una nuvola vaporosa e accogliente.
C’e tempo per pensare ai portici del Teatro, della Galleria proprio al lato opposto del marciapiede, con i suoi marmi, mosaici e ambienti mortificati.
C’è tempo per pensare all’umanità distratta: troppo distratta.
E poco prima di uscire da quello scrigno prezioso che è il San Carlo, rimane giusto il tempo di porre – in silenzio – una domandina:
“Ma ce la meritiamo – poi – questa bellezza?”.