Ritratto di un amico

di Nicola Manna

La città che era cara al nostro amico è sempre la stessa: c’è qualche cambiamento, ma cose da poco.
La nostra città rassomiglia, noi adesso ce ne accorgiamo, all’amico che abbiamo perduto e che l’aveva cara; è, come era lui, laboriosa, aggrondata in una sua operosità febbrile e testarda; ed è nello stesso tempo svogliata e disposta a oziare e a sognare. Nella città che gli rassomiglia, noi sentiamo rivivere il nostro amico dovunque andiamo; in ogni angolo e ad ogni svolta ci sembra che possa a un tratto apparire la sua figura. L’amico misurava
la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffé più appartati e fumosi, si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, ormai grigi, e poi si spettinava all’improvviso con mossa fulminea. Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così. Le sue giornate erano, come quelle degli adolescenti, lunghissime, e piene di tempo: sapeva trovare spazio per studiare e per disegnare, per oziare sulle strade che amava: e noi che annaspavamo combattuti fra pigrizia e operosità, perdevamo le ore nell’incertezza di decidere se eravamo pigri o operosi. Non volle, per molti anni, sottomettersi a un orario d’ufficio, accettare una professione definita; ma quando acconsentì a sedere a un tavolo d’ufficio, divenne un impiegato meticoloso e un lavoratore infaticabile.
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Era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo,che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo, la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni.
Conversare con lui, non era mai facile, nemmeno quando si mostrava allegro: ma poteva essere un incontro con lui anche composto di rare parole, tonico e stimolante come nessun altro. Diventavamo, in sua compagnia, molto più intelligenti; ci sentivamo spinti a portare nelle nostre parole quanto avevamo in noi di migliore e di più serio; buttavamo via i luoghi comuni, i pensieri imprecisi, le incoerenze.
Ci sentivamo spesso, accanto a lui, umiliati: perché non sapevamo
essere, come lui, sobri, né come lui modesti, né come lui generosi e
disinteressati. Ci trattava, noi suoi amici, con maniere ruvide, e non
ci perdonava nessuno dei nostri difetti; ma se eravamo sofferenti o
malati, si mostrava ad un tratto sollecito come una madre. Per principio, si rifiutava di conoscere gente nuova; ma poteva succedere che a un tratto, con una persona impensata e mai vista prima, una persona magari vagamente spregevole, lui si mostrasse espansivo e affettuoso, prodigo d’appuntamenti e progetti.
Aveva un modo avaro e cauto di dare la mano nel salutare, poche dita concesse e ritolte.
Era, qualche volta, così triste, e noi avremmo pur voluto venirgli in aiuto: ma non ci permise mai una parola pietosa, un cenno di consolazione: e accadde anzi che noi, imitando i suoi modi, respingessimo nell’ora del nostro sconforto la sua misericordia. Non fu, per noi, un maestro, pur avendoci insegnato tante cose: perché vedevamo bene le assurde e tortuose complicazioni di pensiero, nelle quali imprigionava la sua semplice anima; e avremmo anche noi voluto insegnargli qualcosa, insegnargli a vivere in un modo più elementare e respirabile: ma non ci riuscì mai d’insegnargli nulla, perché quando tentavamo di esporgli le nostre ragioni, alzava una mano e diceva che lui sapeva già tutto.
Aveva, negli ultimi anni, un viso solcato e scavato, devastato da travagliati pensieri: ma conservò fino all’ultimo, nella figura, la gentilezza d’un adolescente.
Aveva, a volte, un ghigno astuto e superbo, fanciullesco e malevolo, che lampeggiava e spariva. Ma quell’esserselo sempre aspettato, significava che la cosa raggiunta non gli dava più nessuna gioia: perché era incapace di godere delle cose e di amarle, non appena le aveva.
Noi stessi suoi amici, lui ci diceva, non avevamo più segreti per lui e lo annoiavamo infinitamente; e noi, mortificati d’annoiarlo, non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava: nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell’esistenza, che procede uniforme, e apparentemente senza segreti. Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana;
ma questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme,
sete e ribrezzo; e così non poteva che guardarla come da sconfinate lontananze.
È morto d’estate. La nostra città, d’estate, è deserta e sembra molto
grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non
luminoso, di un pallore latteo.
Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido giugno volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero

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