Oggi veniva beatificato San Giovanni Ogilvie
San Giovanni Ogilvie
22 dicembre 1929, Roma, papa Pio XI
17 ottobre 1976, Roma, papa Paolo VI
Come molte famiglie a quell’epoca, gli Ogilvie erano divisi tra cattolici e presbiteriani. Walter aderì alla Riforma ed educò il figlio nella fede calvinista. Nel 1592, all’età di tredici anni, Giovanni fu mandato dal padre in Europa per completare la sua formazione: visitò l’Italia, la Francia e la Germania e vi trovò le stesse tensioni religiose che aveva lasciato in patria, con la differenza che, almeno in Francia, le opinioni differenti erano discusse in pubblico tra persone di pari cultura. L’ambiente intellettuale aperto fece sì che il giovane potesse affrontare approfonditamente il problema discutendone con intellettuali e persone colte.
Secondo un discorso a luí attribuito in una versione scozzese del suo processo, ebbe rapporti con studiosi italiani, francesi e tedeschi. Dopo un periodo iniziale di confusione, si concentrò in modo particolare su questioni che riguardavano la diffusione universale, in spazio e tempo, della Chiesa cattolica, la sua unità di fede, la santità, i miracoli che confermavano le sue affermazioni, i suoi teologi e, soprattutto, i suoi martiri.
Nel corso del 1596 Giovanni frequentò il collegio scozzese di Lovanio e chiese di essere accettato nella Chiesa cattolica: venne istruito nella dottrina cristiana dal gesuita Cornelio, il famoso scrittore, rimanendo a Lovanio per due anni fino a che, a causa di una crisi finanziaria, il collegio non dovette chiudere. Nel 1598 trascorse sei mesi nel monastero benedettino di S. Giacomo a Regensburg, che poi lasciò nello stesso anno per entrare nel collegio gesuita a Olmiitz. Nel novembre 1599 iniziò il suo noviziato nella Compagnia a Briinn, in Boemia, rimanendo in Austria fino al 1610, secondo l’abituale corso degli studi e del noviziato presso i gesuiti. Fu ordinato prete a Parigi nel 1610.
Oltre il Canale della Manica, nello stesso anno, l’anglicano Giacomo V1 principe di Scozia era divenuto re Giacomo I d’Inghilterra, e aveva insediato la Chiesa episcopale in Scozia, approvando l’investitura dei vescovi scozzesi. Per attenuare le paure dei presbiteriani, che temevano un ritorno al cattolicesimo, il governo scozzese intensificò le persecuzioni contro i cattolici. Gli ultimi due gesuiti che ancora operavano in Scozia furono obbligati ad andarsene nel 1611.
Giovanni Ogilvie desiderava prendere parte alla missione in Scozia, ma Aquaviva, il generale dell’ordine, conscio dei pericoli che questa comportava, non voleva esporsi a rischi inutili. Fu un momento imbarazzante per entrambi quando Ogilvie, avendo erroneamente capito di essere stato destinato da tempo alla missione, iniziò a prepararsi e fu obbligato a interrompersi quando Aquaviva in maniera esplicita lo informò del suo parere contrario. Giovanni accettò la decisione, ma continuò a fare presente la sua richiesta. Non dovette aspettare a lungo: nel 1613 Aquaviva diede il suo consenso e Ogilvie partì, arrivando in Scozia nel novembre 1613, per svolgere un ministero che sarebbe durato solo nove mesi.
Si recò subito al nord, nella sua regione d’origine, í1 Banffshire, sperando di riaccendere la fede nella classe nobiliare: molte famiglie si erano infatti adeguate alla nuova religione. Fu ricevuto dal marchese di Humtly, un cripto cattolico, nel suo castello di Strathbogic, e da qui Giovanni riuscì a esercitare il ministero per i cattolici del distretto. Sei settimane dopo si preparò a partire: trascorse un breve periodo a Edimburgo, nella casa di un convertito molto fervente di nome Guglielmo Sinclair, e poi andò a Londra per una missione di cui non conosciamo i particolari. Essa però dovette sembrargli così importante da giustificare un ritorno in Francia per consultare i suoi superiori che, però, non si mostrarono disponibili a portare avanti il progetto.
Ritornato in Scozia nell’aprile 1614 insieme al gesuita Moffat e a un prete secolare di nome Campbell, si recò a Edimburgo. Durante una visita a Refrewshire riuscì a convertire alcuni della piccola nobiltà.
A luglio era a Glasgow, per celebrare la Messa per la comunità locale, e in agosto fece ritorno ancora a Edimburgo. Vi erano tre case sicure dove poteva celebrare la Messa, e iniziò a gettare le basi per una congregazione. Ogilvie visitava i cattolici in prigione e riuscì a penetrare perfino nelle segrete del castello, dove Giovanni Macdonald attendeva la sua esecuzione.
Guglielmo Sinclair, che ospitava Ogilvie a Edimburgo, suo ammiratore e amico, avrebbe pagato duramente la sua generosità con l’esilio e il sequestro dei beni.
Nonostante ciò, rimase il suo più fedele ammiratore e fu un testimone chiave nel processo della sua beatificazione.
All’epoca lui e la sua famiglia, specialmente i figli, Ruggero e Roberta. a:mono il gesuita nel suo lavoro, a cui si dedicava incessantemente, conservando però uno spirito sempre allegro, pronto allo scherzo o a raccontare una storiella divertente.
Durante quello stesso mese di agosto Ogilvie fu mandato a Glasgow per incontrare i cattolici della città e celebrare la Messa in MI centro fondato da Marion Walker, un’eroica cattolica. Estese il suo ministero anche alle famiglie fuori Glasgow, che tornò a visitarle in settembre.
Dopo un breve soggiorno a Edimburgo tornò a Glasgow il 3 ottobre, preoccupato di accogliere tre convertiti che lo attendevano: tra questi vi era un certo Adamo Boyd, uomo malvagio pronto a tutto per soldi. Egli aveva ordito un piano insieme all’arcivescovo di Glasgow, e riuscì a fissare un appuntamento col gesuita il 4 ottobre nella piazza del mercato. Ogilvie arrivò con un po’ di anticipo e si imbatté nel cattolico Giacomo Stewart, e mentre i due stavano conversando Boyd diede il segnale a uno dci servitori del vescovo di arrestare il prete sospetto. Stewart tentò di proteggere Ogilvie, provocando una lite. Subito si radunò una gran folla di persone che portò il prete, nonostante le sue proteste, alla casa del sindaco, dove lo aspettava l’arcivescovo di Glasgow, Giovanni Spottiswoode. Come quest’ultimo varcò la soglia della stanza, Giovanni si alzò in piedi ma fu subito colpito in faccia da un pugno sferrato dal prelato che gli gridò: «Sei accusato di celebrare le tue messe in una città riformata!». Ogilvie apparteneva a una delle famiglie più importanti del paese, e mostrò tutta la sua fierezza rispondendo con voce che mal celava il suo sdegno: «Ti comporti come un macellaio, e non come un vescovo!». Altre volte la sua dignità sarebbe stata offesa, ma sempre durante il processo e le torture mantenne un contegno nobile, sopportando gli insulti e non dando ascolto alle menzogne.
Il suo coraggio, l’intelligenza acuta, la rapidità nel rispondere alle false affermazioni dei suoi accusatori e a volte anche nel contestare all’arcivescovo gli argomenti speciosi, ma soprattutto la sua arguzia e il suo “humor” gli guadagnarono le simpatie della popolazione. Ogilvie aveva compreso l’importanza psicologica dello scherzare con i carcerieri: se avessero riso con lui, non avrebbero poi potuto essergli completamente ostili. Certo con questo non avrebbe ottenuto la libertà o una mitigazione delle torture, ma avrebbe creato a proprio vantaggio un senso almeno di familiarità e di umanità.
Dopo lo scambio con l’arcivescovo, i servitori e i sottoposti lo malmenarono perché ritennero che avesse risposto male ma fu salvato da lord Fleming, che era riuscito a essere presente. Dopo averlo perquisito gli trovarono un breviario, un reliquiario d’argento, un sigillo fatto a anello, alcuni medicinali e una carta che elencava zone religiose controverse. Il giorno seguente ispezionarono la sua camera, ma non trovarono nulla, poiché un cattolico aveva nascosto l’altare portatile e i paramenti sacri ma, a una seconda ispezione, l’uomo consegnò gli oggetti compromettenti: il necessario per la Messa, una lista di nomi, forse di cattolici ma più probabilmente un messaggio in codice, un elenco dei paramenti e di altri oggetti sacri lasciati dal suo predecessore in diverse case sicure e una dispensa papale per i cattolici convertiti che possedevano proprietà della Chiesa.
Il processo durò cinque mesi. Lo scopo non era solo quello di incolpare Giovanni: gli accusatori, infatti, per discolparsi dalla possibile critica di perseguitare qualcuno solo per la sua fede religiosa, dovettero imbastire un’accusa per tradimento; inoltre era fondamentale raccogliere cattolici apostati e, in caso non se ne fossero trovati, torturare i prigionieri per ottenere i nomi di coloro che avevano dato asilo a Giovanni e avevano assistito alle sue celebrazioni.
Il giorno seguente all’arresto iniziarono le inchieste, condotte da giudici e dignitari: la maggioranza degli interrogati possedeva beni della Chiesa e aveva interesse nel porre i cattolici al bando. Il tribunale era presieduto da Spottiswoode, che oltre a essere arcivescovo di Glasgow era anche il consigliere privato del re. ll processo si trasformò in un confronto teologico tra l’arcivescovo e il gesuita, e perciò fuori dalla comprensione del resto della corte. La prima domanda che gli fu posta aveva lo scopo di metterlo fin dall’inizio sotto accusa: «Hai celebrato messe nei possedimenti del re?» Giovanni sapeva che un’ammissione avrebbe comportato l’immediata condanna per tradimento e perciò rispose: «Se questo fatto può essere considerato un crimine, deve essere provato dalle parole dei testimoni e non dell’accusatore».
La corte promise di mostrare i testimoni, che erano ancora sotto interrogatorio. Sapendo che alcuni di loro avrebbero potuto incriminarlo, il gesuita rispose: «Allora molto bene: da un lato il mio diniego non invaliderebbe questa prova e dall’altro non intendo rafforzarla con un’ammissione, finché non mi parrà conveniente». Alla domanda riguardante le messe, Ogilvie si rifiutò di rispondere: «Furti, assassini, strozzinaggio, questi sono argomenti per il tribunale del re, non i sacramenti della religione».
«Perché sei venuto in Scozia?»
«Per estirpare l’eresia.»
«Chi ti ha dato il permesso, dal momento che né il re né il vescovo l’hanno fatto?»
«Essi sono tutti fedeli al loro re e nulla più, e non possono avere potere in queste cose. Il gregge di Cristo è stato affidato a Pietro Da lì viene la mia giurisdizione.»
«È tradimento affermare che il papa ha potere spirituale nei domini del re.»
«È fede affermarlo.»
«Sei disposto a firmare questa dichiarazione?»
«Certo, anche col sangue.»
Ogilvie aveva già accuse sufficienti per essere condannato come traditore, come sanciva la legge scozzese, ma Spottiswoode era determinato a fare pressione per strappare a Giovanni quante più dichiarazioni di colpevolezza possibili.
«Il papa può deporre un re eretico?»
Rispose: «Non sono tenuto a esprimere un’opinione se non a una persona che ha l’autorità di giudicare una controversia religiosa, cioè al papa o a un suo delegato».
Soddisfatto di quella affermazione che implicava la supremazia del papa sul re per le questioni religiose, Spottiswoode attaccò il gesuita sul suo punto debole: che cosa ne pensava della Congiura delle polveri? Rispose che detestava gli assassini dei re e non lo approvava. «Ma i gesuiti e i papisti insegnano queste cose.» In risposta Ogilvie citò il concilio di Costanza facendo riferimento alla vicina rivolta presbiteriana del 17 settembre. Se i cattolici potevano essere accusati di tradimento, che cosa dire di quei ministri presbiteriani che avevano legittimato il regicidio? «A Edimburgo ci sono ancora duemila persone che quel giorno hanno abbracciato le armi.»
Ogilvie non aveva mangiato nulla dal giorno prima, aveva trascorso la notte in cella, aveva sopportato le percosse e un interrogatorio estenuante: iniziò a tremare convulsamente per la febbre che saliva. Questo primo interrogatorio fu interrotto, e fu fatto scendere vicino al fuoco. Uno dei sottoposti lo insultò violentemente e gli augurò che fosse gettato nel fuoco; Ogilvie rispose: «Mi farebbe molto piacere, sono congelato» e continuò a scherzare fino a che tutti furono costretti a ridere.
Ritornato in cella, fu lasciato in pace per due giorni, ma poi lo presero e gli legarono i piedi a una pesante barra di ferro, costringendolo a rimanere sdraiato sulla schiena o seduto perché troppo debole per trascinarla in giro. Il buio e il puzzo della cella potevano solo peggiorare il suo sconforto nell’apprendere che coloro che avevano partecipato alle sue celebrazioni erano stati condannati a morte cd era stato detto loro che egli li aveva traditi. Per due mesi sopportò questa condizione di angoscia mentale, fino a che in un freddo giorno di dicembre fu fatto uscire e condotto a Edimburgo per un secondo interrogatorio. I parenti dei condannati vendicarono il loro dolore e il loro odio tirandogli neve e fango mentre lasciava Glasgow.
Lo scopo di questo secondo processo era quello di ottenere dal prigioniero i nomi dei compagni cattolici. Fu interrogato sui suoi movimenti ma rifiutò di dare alcuna informazione: «Non sono tenuto a rispondere; dalle mie parole voi trarreste le vostre conclusioni per la dannazione della mia anima, l’offesa di Dio e la rovina dei miei vicini […]. Nel tradire i miei amici offenderei Dio e porterei alla rovina la mia anima. Inoltre, questo non mi aiuterebbe ma mi indebolirebbe».
Per piegare la volontà del gesuita fu deciso un metodo che non avrebbe lasciato tracce di maltrattamenti o mutilazioni: gli sarebbe stato impedito di dormire fino a che non si fosse deciso a parlare. Quattro sottoposti dell’arcivescovo vennero istruiti: il perio do durò dal 12 al 21 dicembre, otto giorni e nove notti. All’inizio per tenerlo sveglio usavano lance e aste ma, quando queste non sortirono più alcun effetto, veniva sollevato e lasciato cadere a terra, così che lo shock e il dolore lo riportavano di colpo alla realtà. Vi era un flusso continuo di ministri e ufficiali, che lo minacciavano di altre torture, gli promettevano premi se avesse accettato, gli domandavano i nomi che volevano sapere. Quando non riuscirono più a tenerlo sveglio, iniziarono a tirarlo avanti e indietro per i piedi e smisero solo quando un dottore affermò che sarebbe morto in poche ore. Guglielmo Sinclair, che seguì gli avvenimenti da vicino e più tardi riferì delle torture, disse: «Dai guardiani ai dottori che stettero con lui durante la veglia forzata agli altri che assistettero alla sua morte, ho udito che si meravigliarono di come sopportò fino alla fine quelle grandi sofferenze con uno spirito incredibilmente coraggioso e inflessibile».
Gli furono accordati un giorno c una notte di riposo prima di sottoporlo a un altro interrogatorio. Emaciato e molto confuso, ma certo della prossimità della fine, Giovanni Ogilvie non ebbe tempo per i dettagli. Quando gli fecero notare che era stato trattato con clemenza nell’essere stato privato del sonno piuttosto che venire torturato con lo “stivale spagnolo”, egli replicò:
«Sc mi aveste sottoposto allo “stivale” avrei ancora potuto essere stato trasportato in chiesa o in una sala di conferenze e guadagnarmi la mia ricompensa […] ma in questo modo la veglia ha solo distrutto e ucciso la mia intelligenza. Quale peggior tortura, salvo la morte, mi avreste potuto infliggere, dal momento che nella mia chiamata ho bisogno di saggezza e lucidità e non delle gambe per servire Cristo e la Chiesa?» «Se non ti atterrai al volere del re, accadrà il peggio.» «[…] Non cambierò né aggiungerò nulla a ciò che ho detto. Quello che state per farmi, fatelo in fretta, a Dio piacendo. Non chiedo pietà. Solo una cosa domando: che facciate in fretta.»
Lo riportarono in cella, ma non lo lasciarono in pace. Un delegato dello sceriffo andò a rimproverarlo per la sua testardaggine, aggiungendo: «Se fossi io il re, ti immergerei nella cera bollente». «Non ho dubbi sul fatto che se Dio ti avesse voluto fare diventare re, ti avrebbe dato un’intelligenza migliore.» Brindò alla sua salute e continuò a prenderlo in giro, tanto che anche Spottiswoode dovette ridere. L’uomo non gli serbò rancore ma, tornato a Glasgow il giorno seguente, invitò il prete a fare visita alla sua casa e ai suoi giardini.
La vigilia di Natale del 1614 Ogilvie fece ritorno nella prigione dell’arcivescovo, dove vi erano condizioni relativamente più favorevoli. Spottiswoode lo trattava con più umanità, sperando con la gentilezza di spingerlo a collaborare: «Non possiamo decidere nulla del tuo destino fino a che non troviamo le tue lettere e le tue cose. É pazzesco che tu non riveli nulla e che così tante persone stiano lavorando al tuo caso senza ottenere nulla».
«A dire il vero, spero che tu non abbia trovato nemmeno l’ombra della mia esistenza», fu la spiritosa osservazione del gesuita. Fu durante quel periodo relativamente tranquillo che Ogilvie scrisse la sua Relatio Incarcerationis per i fratelli gesuiti, consegnandola una pagina alla volta. Contemporaneamente re Giacomo stava redigendo la sua opera, un interrogatorio allo scopo di incastrare il gesuita, che non avrebbe potuto scampare il patibolo se avesse continuato a appoggiare la dottrina cristiana. Pose domande puramente ipotetiche, senza riferimenti al crimine di Ogilvie di aver celebrato la Messa o di aver fatto opera di conversione: il papa ha potere nelle questioni spirituali e temporali? Può egli scomunicare e deporre un sovrano che non appartiene alla sua Chiesa? E’ omicidio uccidere, dopo il dovuto processo, un sovrano scomunicato e deposto?
Le domande furono sottoposte al prigioniero il 18 gennaio. Era chiaro che veniva giudicato non tanto ciò che Ogilvie aveva fatto, bensì quello che pensava. Mantenendosi fedele alla sua linea, rifiutò di negare la giurisdizione spirituale o la supremazia del papa, ma non diede risposta a questioni controverse che non riteneva fossero di competenza del tribunale. Per correttezza aggiunse che condannava il patto di alleanza e supremazia e chiese che l’affermazione fosse registrata dal segretario della corte e firmata da egli stesso.
Il destino di Ogilvie era segnato. Il suo secondino, sospettato di nutrire troppo attaccamento, fu cambiato; perfino la moglie dell’arcivescovo, che si pensava fosse stata conquistata dal fascino del gesuita, fu allontanata da Edimburgo. Il popolo, informato dalle chiacchiere del carceriere che lo aveva torturato, iniziò ad ammirarlo; la fama del suo coraggio morale e fisico si diffuse in tutta la Scozia e più lontano ancora. Gli furono messe catene più pesanti e furono fermate in maniera sicura. L’ultima lettera di Ogilvie al generale della Compagnia dice semplicemente: «Sono sottoposto a punizioni terribili e ad amari tormenti. Nel tuo amore paterno prega per me che possa morire con coraggio generoso per Gesù che ha trionfato su tutto per noi». Il re fissò la data del processo, a cui sarebbe seguita l’esecuzione se egli non avesse rinnegato le sue affermazioni. La notte prima del processo un nobile cattolico tentò di persuadere Ogilvie a scappare, ma egli non accettò. L’ultimo processo non portò nulla di nuovo, salvo che ora l’accusa era basata sulle risposte che Ogilvie aveva dato alle domande del re. La giuria lo giudicò colpevole di tradimento, e il verdetto fu emesso: il prigioniero era condannato all’impiccagione e allo squartamento. Fu condotto al patibolo il pomeriggio stesso del 28 febbraio (secondo l’opinione antica) o del 10 marzo (secondo nuovi studi) del 1615; fino all’ultimo momento gli furono offerte ricche ricompense se avesse negato la supremazia del papa. L’enorme folla, composta sia da cattolici che da presbiteriani, non approvava la condanna di un uomo così coraggioso: il sentimento di simpatia era così forte che il corpo di Ogilvie non venne fatto a pezzi, ma fu seppellito fuori della città. Pare che più tardi sia stato riesumato dai fedeli cattolici.
Giovanni Ogilvie fu beatificato nel dicembre 1929 e canonizzato da Paolo VI nel 1976.
MARTIROLOGIO ROMANO. A Glasgow in Scozia, san Giovanni Olgivie, sacerdote della Compagnia di Gesù e martire: trascorsi molti anni nello studio della sacra teologia esule per i regni di Europa, ordinato sacerdote, tornò di nascosto in patria, dove con somma diligenza si dedicò alla cura pastorale dei suoi concittadini, finché, messo in prigione sotto il re Giacomo VI e condannato a morte, ricevette sul patibolo la gloriosa palma del martirio.