Procida è Procida !
Di Riccardo Brescia
Mi piace rientrare dal mare al crepuscolo, in Cumana; passare per Pozzuoli, Bagnoli, Posillipo; vedere in treno una ragazza seduta, con i capelli tutti portati in avanti, sulla spalla sinistra, mentre guarda fuori dal finestrino; ed è sufficiente lasciarmi inondare dai colori di quest’ora della giornata per entrare in una leggera e piacevole depressione.
Procida mi fa questo strano effetto: lascia ferite invisibili.
E’ antica, bimillenaria; è polvere, basoli consumati, cunicoli, vicoli.
La Procida che ho conosciuto è le sue case dai calcinacci accantonati lungo le mura di cinta; i suoi locali fronte strada dai vetri rotti; i suoi portoncini con serrature arrugginite.
E’ la Corricella; i moli e le bitte soffocate da gomene appese lì da chissà quanti anni. E’ Vivara, cratere facilmente intuibile, e il porticciolo borbonico.
La Procida che ho conosciuto è la sua sabbia nera, vulcanica.
E’ scomoda. Gli scorci che all’improvviso offre mi vorrebbero far saltare nel vuoto, perché da quella scomodità ho visto il golfo più bello al mondo.
L’ho percorsa a piedi. Ho visto case che ci sono solo in quei vicoli, a forma di A maiuscola; portoni che seducono per le loro fessure che lasciano intravedere cosa c’è dietro, e non puoi desistere dal prendere un inutile telefono e scattare una ancor più inutile serie di fotografie, che mai potranno restituire la benché minima idea di quello che hai visto.
La Procida che ho visto è le botteghe del porto, il molo a pelo d’acqua – sembra che il mare lo sommerga – che quando ho passeggiato appena sbarcato per raggiungere una pasticceria e mangiare una “lengua” al limone, mi è sembrato di camminare sulle acque e che il mare, come segno di benvenuto, mi abbia accarezzato e massaggiato i piedi.
Ho sentito sulla pelle i fili elettrici avvolti, i contatori dell’acqua impolverati e tubi antichi, rivestiti di muschio verde per le gocce che trasudano da manicotti cui credo da anni non viene sostituita una guarnizione. Gli scoli per l’acqua piovana nei muri, tabernacoli per i contatori a vista, depositi di bottiglie vuote, lattine o tubi di patatine impolverati, mi hanno fatto venir voglia di prendere una busta e ripulire tutto da quei rifiuti, ma poi ho lasciato tutto così com’era.
Ho visto scale strette, ripide e buie, consumate, umide; quelle con gli immancabili gatti che di farsi fotografare non ne hanno mai manifestato l’intenzione. Mi sono chiesto come farei, giovane e forte, a salire quelle scale faticose per raggiungere casa (e dire che di scale ne percorro veramente tante ogni giorno). Poi l’ho visto fare a una donna anziana che poteva essere mia madre: senza un lamento.
I procidani parlano poco e quando ho ascoltato le loro voci, ho capito poco del loro dialetto, un misto di napoletano e credo un po’ greco e un po’ arabo; guardano mentre passi e tacciono, infastiditi. I loro sguardi dicono “quando te ne vai” o “cosa hai da fotografare, cosa hai da guardare”. Hanno la stessa espressione dei gatti delle scale ripide.
Non è Capri e nemmeno Ischia.
Capri è perfetta; ha tutto, ha troppo. E’ talmente bella che ciò che vedi fuori è meraviglioso al punto tale da rendere inadeguato qualsiasi cosa tu abbia visto altrove. Un dono degli Dei. Non puoi fare altrimenti, non hai scelta. Non c’è competizione. Devi soccombere. Sai che non è per te. So che non è per me. E’ preziosa, come una gemma, una stalattite, una fuoriserie che anche toccarla con le tue dita è sacrilego: comporterebbe un danno non misurabile attraverso unità di riferimento terrestri.
Spesso ho pensato sia finta. Tutto è troppo ravvicinato. Basta fare pochi passi e vai da uno squarcio paesaggistico ad un altro, da Punta Tragara ai Giardini di Augusto, a via Sopramonte, i Faraglioni, la Certosa di San Giacomo, Anacapri, Villa Axel Munte, l’Arco naturale, la chiesa di San Michele, villa Iovis, il salto di Tiberio, la Scala Fenicia, via Krupps, Monte Solaro, la Seggiovia. Tutto così vicino, costretto in spazi troppo ristretti perché sia vero. Più complicato é raggiungere la Grotta Azzurra: ma mentre sei in attesa che arrivi il tuo turno, hai subito la percezione che stai per vedere la cosa più bella del mondo.
Ischia è grande; ho cercato il suo mare, i suoi giardini, le sue terme, ma è spietata: impone un ritmo eccessivo. Le sue distanze mi hanno deposto sulle spalle un’ansia e una frenesia tale da risultare eccessive per il mio soggiorno di una giornata: ha messo alla prova la voglia di non perdermi nulla, sussurrando sottovoce di tornare e godere con lentezza di una cosa per volta. E ha vinto lei. Non ho trovato un ordine logico col quale stilare una gerarchia tra le sue bellezze, in grado di attirare il visitatore come sirene che invitano ad avvicinarti e poi ad andare via, in un alternarsi di mare, montagna, azzurro, verde, bollori termali, natura scintillante anche quando piove; tramonti e albe che si rincorrono giocando ad un nascondino che non finisce mai.
Presuntuoso pensare di avere l’isola sotto controllo; rischioso pensare di conoscerla a fondo; opportuno abbandonarsi alla sua dolcezza, lasciando a Lei il compito di scegliere cosa dare e quanto dare.
Procida è Procida.
Ho sentito all’alba rintocchi di campane di chiese contare le ore – si, all’alba – che sembrava fossero dentro casa; ho visto più di una volta scooter sfrecciare a pochi centimetri, evitare per un pelo un autobus e autobus che per un pelo hanno evitato me. Ma per i rispettivi autisti era tutto normale.
Sono andato alla ricerca di vicoli stretti, con le pareti strisciate da auto o pulmini, vicoli dai quali ho creduto che il mare fosse lontano; ho trovato auto con le fiancate strisciate e auto parcheggiate dinanzi a villette l’una diversa dall’altra, rubando prezioso spazio a giardini di terra fertile destinabile ad ancor più preziose coltivazioni di limoni, viti, ulivi, orti e chissà quant’altro.
Ho scelto di rientrare al crepuscolo, decisione scellerata. Dalla scogliera, mentre attendevo il traghetto giusto, ho visto la danza di aliscafi, traghetti e catamarani attraccare, persone uscire dal ventre dell’imbarcazione entusiasta dell’arrivo e adorabili microtaxi contendersi i passeggeri; la silhouette della chiesa di Saint Co’ con dietro gli alberi delle imbarcazione ormeggiate nel porticciolo turistico; le case variopinte; i gabbiani; i pescherecci muoversi sulle onde in maniera dissonante; le bitte arrugginite sul molo della Madonnina che altro non sono che cannoni borbonici incastrati tra gli scogli; l’odore della nafta misto a quello del mare e della liquirizia di macchia mediterranea propria dell’isola. Più lontano – quasi a toccarlo con mano – Monte di Procida; ancora più in là Capo Miseno, Nisida e dietro Sua Maestà il Vesuvio. Casa.
Non so se esiste uno scenario migliore.
Salito sul traghetto giusto, le ferite nascoste hanno fatto sentire il loro bruciore ed io non sono riuscito a fare altro se non portar via il vento della sera e la voglia di non andar più via.