Il pontificato di Francesco compie 12 anni

Roma, 13 marzo 2013: papa Francesco, la sera dell’elezione, saluta i fedeli in piazza San Pietro. E chiede la loro preghiera e la loro benedizione – foto Ansa
«Per rimanere fedeli bisogna uscire. San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che cresce e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo». Era il 13 maggio 2007 ad Aparecida, in Brasile, dove eravamo arrivati con il volo papale di Benedetto XVI nel giorno dell’inaugurazione della quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. Sotto i portici del grande santuario mariano incontrai il cardinale Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, che avevo conosciuto cinque anni prima a Roma, quando venne ospite presso la nostra famiglia. Gli chiesi del suo incontro con il Papa e delle prospettive di quell’assise. Mi fece quest’accenno a san Vincenzo di Lerins, all’esortazione Evangelii nuntiandi di Paolo VI e che ne avremmo riparlato quando sarebbe venuto a Roma.
Venne, come promesso, nell’ottobre di quell’anno per il Concistoro, al quale però non poté partecipare a causa di una dolorosa sciatica. E quello che mi disse divenne un’intervista per il mensile internazionale 30Giorni, l’unica che rilasciò in tutti quegli anni sulla visione della Chiesa. Mi parlò dell’apertura alla missionarietà, del coraggio apostolico, della misericordia, del pericolo dell’autoreferenzialità e della mondanità spirituale nella Chiesa. In sostanza i pilastri del suo magistero, quello che poi trasmise nella sua esortazione programmatica del pontificato Evangelii gaudium. Le stesse priorità che aveva ripreso anche nelle Congregazioni generali del pre-Conclave che lo portò al Soglio di Pietro, e che aveva già dette anche ai cardinali del pre-Conclave del 2005, in una paginetta di cui tengo copia.
Ricordo ancora quando, come paradigma della missione, mi parlò del profeta Giona. Una memoria che riaffiorò più tardi, il 7 marzo 2021, nella Piana di Ninive in Iraq, terra di Abramo e del profeta Giona, quando al seguito del suo viaggio apostolico vidi papa Francesco entrare nella cattedrale di Al-Tahira, crivellata di pallottole, attorniato dalla folla che agitava palme cantando in aramaico, lingua madre del cristianesimo siriaco, quella parlata da Gesù. «Santità, la accogliamo oggi come i niniviti accolsero “Giona, il predicatore della verità”, secondo la nostra tradizione siriaca», gli disse il patriarca siro-cattolico in mezzo alla folla di fedeli e presentando la comunità cristiana di Qaraqosh, dove il cristianesimo risale al tempo degli Apostoli.
In quella tappa, che sembrava uscire da una visione, sull’orlo di un tempo tragico segnato dalla pandemia, in un viaggio emblematico e profetico nella cerniera del Medio Oriente, culla dell’umanità e delle fedi, devastato dalle guerre, Francesco si era così portato anche nei luoghi emblematici dell’apertura alla missione. E portandosi alle origini dell’opera di Dio, da quel luogo sorgivo di fede e fratellanza, dalla terra del nostro padre Abramo, dove si è accanita l’opera diabolica dell’odio e della divisione, ancora una volta aveva fatto non solo comprendere «come superare i mali e le ombre di un mondo chiuso»: aveva fatto anche progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dalla Tradizione nel solco del Concilio Vaticano II.
Quelle della risalita alle fonti del Vangelo, di una rinnovata missionarietà, del dialogo ecumenico e interreligioso in favore della ricerca della pace, della collegialità e povertà nella Chiesa, che sono il lascito da percorrere del Vaticano II e insieme sono il timbro della Tradizione che hanno distinto questi dodici anni di pontificato. Timbro che Francesco aveva espresso in modo programmatico già la sera stessa dell’elezione, nel primo saluto, nella prima preghiera e nella prima benedizione dal balcone di San Pietro: «Fratelli e sorelle, buonasera! E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa […] sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella! E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me».
Sono affermazioni nelle quali espresse da subito la volontà di farsi prossimo, quale espressione dell’«intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana», come viene descritta nel proemio della costituzione pastorale Gaudium et spes, che è all’origine dell’invito alla prossimità, e il richiamo alla «conversione pastorale» che Francesco rivolgerà poi a tutta la compagine ecclesiale. E con lo stesso invito che quella sera del 13 marzo rivolse ai fedeli di compiere «un cammino insieme vescovi e popolo» aveva rimandato direttamente al secondo capitolo della costituzione dogmatica Lumen gentium sulla natura della Chiesa dove si afferma – testuali parole – che « vescovo e popolo fanno un cammino insieme».
Da qui anche la sinodalità, che significa appunto “camminare insieme”, modalità e stile che appartengono alla natura apostolica costitutiva della Chiesa, e che in questi dodici anni è stata rimessa in moto nei sinodi promossi dal Papa a partire da quello sulla famiglia. Come Vescovo della Chiesa di Roma, «che presiede nella carità tutte le Chiese», riprendeva inoltre la sorgente del suo ministero universale a cui è affidato il compito in quanto Successore di Pietro: quello di ricercare l’unità dei cristiani, tanto che Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, ascoltando queste prime parole pronunciate a San Pietro da papa Francesco immediatamente dopo la sua elezione, prese il primo aereo e arrivò a Roma per poterlo incontrare. E fu il primo Patriarca di Costantinopoli, successore dell’apostolo Andrea, a partecipare alla cerimonia d’inizio di un pontificato in Vaticano. Francesco, infatti, riprendeva le parole esatte di un teologo del primo secolo, un Padre della Chiesa, allora indivisa, e venerato poi santo dalla Chiesa ortodossa quanto dalla Chiesa cattolica: sant’Ignazio di Antiochia, detto l’Illuminatore. E con quelle parole, evidenziando che è Vescovo di Roma – motivo per il quale è Papa, sorgente del suo ministero universale – affermava ed evidenziava non solo la dimensione costitutiva della Chiesa di essere sinodale, ma anche il compito che gli è affidato in quanto Successore di Pietro: quello dell’unità. E per la prima volta anche un’enciclica, la Laudato si’, sulla cura del creato, si è potuta dire ecumenica per la comune, fraterna responsabilità, quella stessa che Atenagora, nel gennaio del 1969, proprio su Avvenire esprimeva con un “noi” per «offrire insieme orientamenti di speranza al mondo». Francesco concludeva infine «perché ci sia una grande fratellanza».
Con questa preghiera il Papa aveva perciò già prefigurato la ricerca dell’unità del genere umano e della pace, che sono confacenti al ministero petrino e che lo hanno portato attraverso il dialogo – valore radicato nell’agire di Dio verso l’uomo, come tutta la storia della Salvezza evidenzia – a gettare ponti dall’Occidente all’Oriente.
E anche con le altre religioni, fino alla firma del Documento sulla fratellanza umana siglato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il leader sunnita al-Tayyeb, intraprendendo i viaggi apostolici dalla Terra Santa all’Egitto, dal Marocco all’Iraq, dal Kazakistan al Bahrein, dal Sud Sudan alla Mongolia, fino ai Paesi all’Estremo Oriente, tutti siglati dall’enciclica Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, che come la Laudato si’ è posta sotto il patronato di Francesco d’Assisi e indica una fratellanza che si estende non solo agli esseri umani ma all’intero creato.
In quelle parole pronunciate da Francesco la sera dell’elezione, i1 13 marzo 2013, c’era già dunque tutto il suo programma poi svolto nel corso del pontificato. Parole maturate dall’aver fatto proprio il Concilio Vaticano II nella sua interezza, come resourcement, «risalita alle sorgenti», comprensive della natura della Chiesa alla luce della Lumen Gentium e della sua missione nel solco della Tradizione. Incipit che fa anche comprendere come non sia il Papa a fare la Chiesa, e sia improprio guardare al Papa come a un personaggio separato dal corpo della Chiesa, che è di Cristo. Solo Cristo con l’azione dello Spirito può muoverla e farla andare avanti, come sottolineò nell’intervista del 17 novembre 2017 che mi rilasciò per Avvenire, dopo il viaggio ecumenico in Svezia, dove ribadì (e lo fece poi più volte): «Non sono io. Questo è il cammino dal Concilio che va avanti, che s’intensifica… motus infine velocior, come dice Aristotele. Questo è il cammino della Chiesa. Io seguo la Chiesa». È questo ciò che nel tempo resta e dal quale non si torna indietro.